I risvolti oscuri dell’olio di palma

Redditizio, versatile e a basso costo: l’olio di palma è un prodotto di cui l’industria moderna difficilmente può fare a meno. A pagarne le spese, però, è la natura e i contadini. Per produrlo vengono dissodate intere aree di foresta pluviale. L’olio di palma rappresenta un prodotto emblematico e controverso nel quadro delle politiche di libero scambio.

L’olio di palma viene impiegato in numerosi alimenti come margarina, dolci o piatti pronti e si presta per la produzione di biocarburanti. Una volta trasformato chimicamente lo si trova anche in detersivi, saponi e cosmetici. L’Indonesia è diventata nel frattempo il maggiore produttore di olio di palma e, insieme alla Malaysia, copre oltre l’80 per cento della produzione mondiale. Una crescita di cui non si intravede la fine.

Il prossimo 7 marzo, la popolazione svizzera sarà chiamata ad esprimersi sull’accordo di libero scambio fra l’Indonesia e i paesi dell’AELS. Un’alleanza composta da oltre 50 organizzazioni (ONG, sindacati, associazioni contadine e di difesa del commercio equo e dei diritti umani) ha lanciato con successo il referendum. Perché? Perché l’accordo commerciale concluso fra l’Indonesia e i paesi dell’Associazione europea di libero scambio (AELS) – di cui la Svizzera è membro – rappresenta una minaccia sia per l’ambiente, sia per i contadini elvetici e indonesiani.  I referendisti lanciano un messaggio molto chiaro: «Anche un accordo comprensivo di condizioni sulla produzione di olio di palma non metterà fine alla distruzione delle foreste tropicali, ai danni per la biodiversità e ai rischi per le popolazioni locali».

Il 20 dicembre 2019 il Parlamento svizzero aveva approvato l’accordo di libero scambio con l’Indonesia. Una scelta presa nonostante la massiccia deforestazione, anche tramite incendi, il lavoro minorile e forzato, l’uso di pesticidi tossici e lo sfollamento di migliaia di piccoli agricoltori e degli indigeni siano la regola in Indonesia.

Un’ampia alleanza della società civile e di contadini – avviata dal viticoltore biologico ginevrino Willy Cretegny – si è subito schierata contro l’accordo di libero scambio con l’Indonesia, che ci viene venduto e sbandierato come sostenibile.  Per gli oppositori la sostenibilità è in realtà un concetto molto preciso: significa tutelare e garantire sicurezza sociale, eque condizioni di lavoro, rispetto dell’ambiente (soprattutto la foresta tropicale) del suolo.

L’impatto negativo si farà sentire anche in Svizzera. Il sindacato svizzero degli agricoltori Uniterre, tra i fautori principali del referendum, rende attenti: «l’olio di palma a basso costo sta già minacciando la nostra produzione nazionale di semi oleosi come l’olio di colza e di girasole. Questo accordo di libero scambio non farà altro che aumentare la domanda di olio di palma a basso costo a scapito di alternative sane e sostenibili prodotte localmente».

Il comitato referendario non usa giri di parole:  la coltivazione di olio di palma è un disastro ecologico. Sta distruggendo vaste aree di foreste tropicali e quindi un enorme serbatoio di biodiversità. «Innumerevoli specie animali e vegetali – si legge nella documentazione – sono minacciate da questa pratica. Immagini di oranghi che bruciano vivi in ciò che resta del loro habitat, circolano in tutto il mondo. Il riscaldamento globale è ulteriormente aggravato dalla scomparsa delle foreste, che sono preziosi pozzi di assorbimento del carbonio, come conseguenza delle monocolture. L’uso di fertilizzanti e pesticidi tossici è elevato. Questi inquinano l’acqua potabile, così come i torrenti e i fiumi. L’accordo di libero scambio accelererebbe ulteriormente questo eccessivo sfruttamento della natura».

Come precisa Johanna Michel, vicedirettrice del Bruno Manser Fonds, in linea di principio, naturalmente, è possibile coltivare l’olio di palma in modo sostenibile e talvolta lo si fa, per esempio in Sud America. «Tuttavia, al momento, si può presumere che l’olio di palma che proviene dalla Malesia, oppure dall’Indonesia, non sia quasi certamente coltivato in modo sostenibile. Ciò è dovuto semplicemente alla mancanza di volontà politica. La Malesia – osserva Michel – vuole continuare ad espandere la sua produzione di olio di palma allo stesso ritmo nei prossimi anni. Questo inevitabilmente va a spese della foresta pluviale».

Gli appetiti per l’olio di palma sono insaziabili. I referendisti indicano infatti  che sono già stati convertiti a tale scopo 17 milioni di ettari di terreno, un’area quattro volte più grande della Svizzera. «I criteri di sostenibilità dell’accordo – sottolineano – non hanno alcun effetto. Non esistono meccanismi di controllo efficaci e praticamente nessuna sanzione in caso di violazioni. Inoltre, l’industria dell’olio di palma è tenuta a controllarsi da sola, visto che il controllo del rispetto dei criteri di sostenibilità viene effettuato dall’organizzazione privata RSPO (Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile), a sua volta dominata dai produttori di olio di palma».

Già oggi è palese – vista la voracità della domanda – che la produzione e la lavorazione dell’olio di palma è dominata da grandi aziende.  Per l’ampia alleanza che si oppone all’accordo commerciale è chiaro che questa richiesta mette in ginocchio le comunità indigene e i contadini locali. Invece di praticare l’autosufficienza sulla propria terra e di coltivare ortaggi e frutta per il mercato locale, la popolazione indigena deve lavorare nelle piantagioni in condizioni precarie. L’appello è dunque lanciato: «L’accordo di libero scambio non è convincente. Per questo diciamo no e diciamo ai governi indonesiano e svizzero: non con noi»

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Françoise Gehring